di Ann Weiser Cornell
traduzione di Letizia Baglioni
1. MAI MAI MAI fare riferimento al contenuto della sessione di focusing dopo che la sessione è terminata, a meno che non lo faccia la persona che ha focalizzato
Questo è un punto veramente importante. Un commento a prima vista innocente e ben intenzionato può compromettere la sicurezza di una partnership per entrambe le parti. E la tentazione di farlo è così forte! Qui si richiedono la massima lucidità e la massima attenzione da parte vostra, perché è probabile che la prima cosa che vi verrebbe da dire violi questa regola. Siamo mille volte più abituati a rapporti sociali che non prevedono il focusing che a quelli che lo prevedono.
Che male può fare? Risposta: molto.
Mettiamo che il vostro partner di focusing stia focalizzando su sensazioni collegate a un litigio con il proprio coniuge. Nel corso della sessione seguite scrupolosamente le regole e vi limitate a rispecchiare i sentimenti espressi dall’altro e il punto di vista che sottendono, senza aggiungere niente di vostro. Ma quando la sessione finisce, mentre ancora siede seduti o sul punto di separarvi o forse in cucina a prendere il tè, vi ritrovate a dire che X (il coniuge) è veramente una persona difficile. Risultato? La prossima volta che il vostro partner vorrà focalizzare su quel tema o un tema simile ci sarà una preferenza, un’inclinazione. Una parte crederà di avere in voi un alleato. Un’altra parte si sentirà insicura, come se aveste preso partito contro di lei. Avete manifestato la vostra tendenza, e le tendenze generano uno spazio non sicuro.
Ancora peggio se il vostro commento estemporaneo implica un giudizio o una critica nei confronti di chi ha focalizzato, del tipo: “Io non potrei mai sopportare tutto quello che sopporti tu da X”. Ora la tendenza include un giudizio sul vostro partner, e lo spazio è ancora meno sicuro ai fini del focusing.
Peggio di tutto: i consigli, di qualunque genere. Dare consigli non richiesti implica sia un giudizio che una mancanza di fiducia. Pensateci! Quando dite: “Perché non provi a…”, o: “Hai mai pensato a…”, oppure: “Quello che farei al posto tuo…”; in sostanza state dicendo che non credete che l’altro sia capace di gestire la situazione validamente senza il vostro contributo. Lo credete veramente? Vi consiglio di dedicare a questo una sessione di focusing, con un altro partner!
Se il consiglio viene richiesto è un altro paio di maniche. “Cosa ne pensi?”, o: “Cosa faresti?”, sono espliciti inviti a esprimere la vostra opinione. Ma a mio parere il problema di molti (e non parlo solo dei partner di focusing) è che prendono l’esposizione di un problema come se fosse una richiesta di consulenza. Y parla di un polso che le fa male nel corso di una sessione di focusing e Z, la sua ascoltatrice, dopo la sessione le domanda: “Hai mai provato l’ortobionomia? Posso darti il nome di un bravo specialista”. Non dubito che le intenzioni di Z siano ottime. Ma la perdita di sicurezza derivante dall’intrusione è un prezzo alto da pagare rispetto al possibile guadagno del buon consiglio. Y ha molte persone che possono darle consigli, ma solo pochi compagni di focusing.
Non importa come avete conosciuto il vostro partner, se eravate amici da prima o vi siete incontrati a un seminario: questo rapporto così intimo finirà per essere vissuto come un’amicizia. E allora potrà nascere un conflitto fra le regole e consuetudini di un’amicizia e quelle più rigorose della partnership di focusing. Sarebbe bene prendere coscienza del potenziale conflitto dentro di voi: la parte di voi che vuole la spontaneità di una normale amicizia e quella che vuole la sicurezza di una partnership di focusing. Gli amici esprimono opinioni, danno consigli (anche se forse più spesso di quanto sarebbe necessario!), raccontano esperienze di situazioni simili. Dovete chiedervi: vale la pena mettere a rischio la partnership di focusing per godermi un’amicizia informale e non strutturata con questa persona? Io direi di no, non rischiate. Un buon partner di focusing non è tanto facile da trovare!
“Che faccio se il mio partner allude al contenuto della mia sessione e la cosa mi mette a disagio?”. Se lo cogliete sul nascere, potreste dire qualcosa del tipo: “Mi pare che tu stia parlando del contenuto della mia sessione, e lo so che hai buone intenzioni, ma preferirei non tornare sull’argomento”, oppure: “… ma ora vorrei lasciar andare la questione”.
Se, come spesso accade, vi rendete conto solo a posteriori che il commento del vostro partner vi ha messo a disagio, la faccenda è un po’ più delicata. Potreste chiedervi, alla maniera del focusing, se per mantenere un senso di sicurezza nel rapporto con il vostro partner c’è bisogno di parlare dell’accaduto. Diversamente, potreste decidere semplicemente che farete notare la cosa al momento se capitasse di nuovo. Ma se avete bisogno di parlarne potreste dire: “Ti ricordi l’ultima volta, quando chiacchieravamo dopo la sessione e tu hai detto: ‘Io non potrei mai sopportare tutto quello che sopporti tu da X’? Mi sono resa conto più tardi che quello mi era sembrato un commento sul contenuto della mia sessione, e vorrei chiedere di evitare di fare commenti che riguardano il contenuto delle sessioni, a meno che non sia una scelta di chi ha focalizzato. Sei d’accordo?”.
Due cose importanti da tenere presenti (e ringrazio la Comunicazione non violenta di Marshall Rosenberg, anche se non adotto punto per punto il suo sistema). Una è citare per quanto possibile letteralmente le parole dell’altro, invece di dire, ad esempio: “Ti ricordi l’ultima volta, quando chiacchieravamo dopo la sessione e tu hai criticato il mio rapporto con X?”. La seconda è ricordare che l’altro aveva buone intenzioni e che il punto non è bollare il suo comportamento come sbagliato quanto piuttosto fargli sapere che in futuro desiderate qualcosa di diverso.
“Che fare se il materiale espresso da chi focalizza suscita una reazione emotiva nell’ascoltatore?”.
Prima risposta: Bene! Che splendida opportunità! Seconda risposta: Nei panni dell’ascoltatore siete responsabili dei vostri sentimenti e delle vostre reazioni, ovviamente. Siete persone autentiche, non siete immuni dal sentirvi commossi, toccati, scossi o turbati dal tema su cui lavora chi focalizza. Io consiglio di dire: “Ciao, lo so che ci sei”, silenziosamente, a qualsiasi sentimento che emerge in voi mentre ascoltate chi focalizza. A volte basta questo. Non c’è bisogno di condividerlo. Anzi, è preferibile non farlo, anche quando la sessione si è conclusa. Rischia di essere un’intrusione nel contenuto del vostro partner. Se subito dopo è il vostro turno, si può trovare il modo di focalizzare con tatto sui temi che sono emersi per voi sull’onda del lavoro dell’altro. Se riuscite veramente a sentirli come vostri, e in nessun modo come riguardanti l’altro, non dovrebbero esserci problemi. In caso di dubbio, verificate con il vostro partner descrivendo brevemente quello su cui volete lavorare e domandandogli se per caso ciò non violi il suo spazio. Trarre reciprocamente ispirazione dal lavoro dell’altro può in realtà rivelarsi molto fruttuoso per entrambe le parti.
La forma più pericolosa di coinvolgimento emotivo è quella inconsapevole, per cui invece di prendervi la responsabilità delle vostre reazioni queste si manifestano in forma di critica, giudizi (su chi focalizza o su persone che fanno parte della sua vita), consigli o atteggiamenti soccorrevoli. Prima ho detto che dare consigli nasce probabilmente o da un’abitudine sociale o dalla convinzione erronea che venga richiesto il vostro aiuto. In realtà, il bisogno di dare consigli, soccorrere, aiutare o giudicare potrebbe venire da un luogo dentro di voi che trova difficile stare semplicemente con il processo di chi focalizza. Siate pronti a riconoscere il bisogno di aiutare, risolvere o soccorrere. Questi bisogni possono essere preziosi segnali che c’è qualcosa dentro di voi che ha bisogno di compagnia.
2. Ricordate che la sessione appartiene a chi focalizza e che non avete la responsabilità in quanto ascoltatore/guida/compagno/alleato di far andare bene il processo dell’altro, e neppure di accertarvi se focalizza oppure no
Cosa che in passato succedeva spesso. Terminato il corso introduttivo di focusing, i partecipanti si incontravano fra loro per esercitarsi in coppia. A quel punto iniziavano ad arrivarmi le telefonate: “Non sono sicuro che il mio compagno stia veramente facendo focusing, che posso fare?”. Risposta: “Niente. Non c’è niente che si può o si deve fare al riguardo. Focalizzare è responsabilità dell’altro. Il vostro compito è ascoltare, sostenere lo spazio, essere presenti. Tutto qua”. Stanca delle telefonate mi sono fatta furba, per cui ora lo insegno nei miei corsi. La ripartizione delle responsabilità fra partner di focusing è la seguente:
La sessione appartiene alla persona che focalizza. Quello spazio di tempo è suo. Punto. Se lo vuole usare per parlare, invece di stare con una sensazione significativa, sono fatti suoi. Se lo vuole usare per sviscerare un problema, definire un obiettivo o meditare sono fatti suoi. Chiedetele solo come vuole che la accompagnate. Così non dovete preoccuparvi del vostro ruolo.
“Quando il mio partner si dilunga a parlare di altre persone mi annoio; continuo ad aspettare che arrivi a una sensazione significativa”. Ecco un paradosso. Da un lato vi insegniamo che quello che porta davvero al cambiamento è fare focusing: prestare un’attenzione interessata a una sensazione significativa. Dall’altro vi diciamo: la sessione è di chi focalizza, a prescindere da cosa vuole fare, limitatevi ad accompagnarlo. Come se ne esce? La butto lì: e se sapeste davvero, se aveste davvero fiducia, che le storie che racconta il vostro partner fanno parte di un processo olistico? Vi annoiereste lo stesso? O magari, chissà, non vi mettereste comodi a osservare con curiosità, interessati a vedere che forma e direzione prenderà quel processo?
C’è un unico modo legittimo di influenzare il focusing del vostro partner, ed è questo: quando tocca a voi focalizzare, fatelo alla grande. Se veramente l’altro non è soddisfatto di quello che fa e vede quanto beneficio traete dal focusing, cambierà.
3. Dividete il tempo in parti eguali con il vostro partner
Ho avuto una bella e preziosa partnership di focusing che è durata quattordici anni, con appuntamenti settimanali. Per i primi undici anni circa, arrivavo dalla mia partner in macchina, spegnevo il motore e mi dicevo: “Peccato che stasera non ho niente su cui lavorare”. Settimana dopo settimana, puntualmente, si presentava quel pensiero, anche se, settimana dopo settimana, puntualmente, nelle mie sessioni emergeva qualcosa, che poi si evolveva portando comprensione e sollievo. (Si può avere fiducia nel processo di focusing, ma non necessariamente nei pensieri che si hanno in proposito prima che cominci!).
Se io e la mia partner non avessimo avuto la regola “Dividete il tempo in parti eguali”, sarei stata tentata di dirle: “Stasera non ho bisogno di focalizzare, prenditi pure tutto il tempo”. Il che, come spero intuirete, avrebbe minato alle radici il rapporto di partnership. E in più sarebbe stato un peccato perdermi tutte quelle belle sessioni. Ognuno è diverso dall’altro. C’è chi molto spesso ha molta carne al fuoco. E’ quello che si chiama (come ho appreso dai miei insegnanti di focusing Elfie Hinterkopf e Les Brunswik) un “processo ravvicinato” [close process]. Altri, come la sottoscritta, tendono a pensare che non verrà fuori nulla. Lo chiamiamo “processo distanziato” [distant process]. Entrambi i tipi di persona possono trarre vantaggio dal focusing, come di fatto avviene. E possono trarre vantaggio dal lavorare in coppia fra loro. Ma il tipo “distanziato” non deve, ripeto, non deve, cedere alla tentazione di consegnare la propria parte di tempo al tipo “ravvicinato” perché sembra averne più bisogno. Non è vero che ne ha più bisogno. Tutti hanno bisogno di focalizzare. (Senza contare che chi attraversa un momento difficile o è emotivamente turbato può trarre molto dal prendere il ruolo dell’ascoltatore: la sensazione di ritrovare un centro, l’autostima che deriva dal rendersi disponibili all’altro, e via dicendo).
“Parti eguali” può significare eguali in termini di tempo o eguali come opportunità. Ad esempio, se due persone si accordano a prendersi ciascuna il tempo che vuole per focalizzare, sono parti eguali, anche se una sessione dura quaranta minuti e l’altra dieci. Inoltre, non si deve necessariamente fare a turno nello stesso incontro: certe coppie hanno un accordo per cui si danno il turno a focalizzare di settimana in settimana. Questo va bene. Va bene anche se uno dei due vuole sempre essere il primo e l’altro sempre il secondo. L’unica cosa che non va bene è saltare il proprio turno, perché questo altera i rapporti di potere all’interno della partnership e connota uno dei due come “il più bisognoso” e l’altro come “quello che dà”. Cedere il proprio turno non è segno di fiducia, né nell’altro né nel proprio processo. Fidatevi, e rispettate il vostro turno.
L’altra faccia della medaglia: se vi trovate a essere il partner con il processo “ravvicinato”, siate scrupolosi nel cercare un buon posto per terminare la sessione nei limiti del tempo concordato. Se avete tante sensazioni sarete naturalmente tentati di andare fuori tempo, specialmente se lo spazio offerto dal vostro partner vi piace. Non fatelo. E’ una licenza pericolosa; perché, magari non la prima volta, magari non la seconda, ma se capita troppo spesso vi ritroverete a essere “il bisognoso” e vi garantisco che non vi piacerà. A meno che non siate assolutamente certi che l’altro è elastico in fatto di tempi quanto voi, meglio attenersi ai limiti di tempo concordati. Fa parte della “buona manutenzione” di un partner di focusing.
E’ chiaro che non siamo macchine, e che dovrebbe sempre essere possibile rinegoziare i tempi quando occorre. Se quando dò i due minuti di preavviso il mio compagno dice: “Sento che c’è bisogno di altri cinque minuti, per te va bene?”, sentirmelo chiedere così mi sta molto meglio che se il mio compagno andasse fuori tempo senza chiedere. Inoltre per me è meglio se una richiesta del genere viene fatta solo di rado, in via eccezionale, piuttosto che d’abitudine. Per altri potrà essere diverso. Quel che conta è rispettare le esigenze del proprio partner e le proprie.