di Rosella Denicolò (2003)
II fatto che per capirci qualcosa occorresse provarlo direttamente, mi era sembrato già interessante. Di sicuro non si trattava solo di mente, di concetti e teorie. Di sicuro aveva a che fare con il corpo, le sensazioni e le emozioni, anche se il Focusing nasce dalla ricerca condotta da un filosofo. E i filosofi, si sa, si interessano più della mente che del corpo. Ma questa è una vecchia distinzione, e oggi non è più così difficile incontrare filosofi che si occupano di fisicità e terapeuti corporei (medici, massaggiatori, insegnanti di movimento, eccetera) che si occupano di pensieri. Anche la storia della nascita del Focusing era promettente.
Negli anni Sessanta all’Università di Chicago, il filosofo Eugene Gendlin studia per diversi anni la relazione tra lo psicoterapeuta e il paziente. Vuole capire perché alcune psicoterapie funzionano e altre no. Raccoglie centinaia di nastri, ore e ore di registrazioni di psicoanalisi e psicoterapie di diversi orientamenti: junghiane, freudiane, gestalt. E si accorge di una differenza fondamentale nel modo di esprimersi.
Riassumendo: la terapia dà buoni risultati quando le persone lasciano sempre passare un po’ di tempo prima di rispondere a una domanda, cercano a tentoni le parole o le immagini, fanno delle pause. Come se quello che esprimono lo estraessero da una fonte interna, radicata nelle sensazioni fisiche, piuttosto che da un processo solo intellettuale. Vale a dire: chi dimostrava di partecipare con tutto il corpo alla psicoterapia, ed era quindi in contatto con le proprie emozioni interne, aveva sicure probabilità di successo. E questo era possibile vederlo fin dalle prime sedute.
Allora Gendlin si chiede: è possibile insegnare questa capacità?
Da questa domanda nasce il Focusing. Il principio è che ognuno possiede l’equipaggiamento necessario per radicare i pensieri e le parole nel corpo. In alcuni, questo equipaggiamento resta inutilizzato, mentre altri ne fanno uso di tanto in tanto. Però si può migliorare, e molto.
Così questa nuova tecnica si è rivelata preziosa non solo in terapia ma in diversi ambiti. Nell’educazione, nei processi creativi, nella gestione dello stress. In generale, migliora le capacità di ascolto e di relazione, aiuta il lavoro di équipe ed è una risorsa per prendere decisioni.
Ecco, tutto quello che ho scritto finora lo sapevo anche prima di entrare in questa saletta di un palazzo romano per frequentare un gruppo di Focusing condotto da Nicoletta Corsetti, l’insegnante che ha portato questo metodo in Italia, tre anni fa. Ma non avevo idea – o meglio, non avevo esperienza corporea – di cosa fosse quella che Gendlin chiama “sensazione sentita” (felt sense in inglese), una sensazione che non è ancora esplicita alla coscienza, che non ha ancora parole che la definiscano, che è ancora confusa e che sta sotto a qualsiasi emozione, qualsiasi pensiero o situazione. Che cosa può esserci sotto una collera, una paura, una forte irritazione? E poi a che cosa serve sentire questa “sensazione sentita”?
“Immagina di avere una torcia e di illuminare l’interno del tuo corpo”, dice Nicoletta rivolta a ogni singola persona del gruppo. “Entra dentro e osserva. Ora nota l’effetto che ti fa la frase “Sei la benvenuta”. I miei occhi sono rivolti all’interno. Scrutano uno spazio che in questo momento non ha niente a che fare con questa stanza, con Roma e con tutte le persone che stanno condividendo la stessa esperienza. Quello che c’è è la voce di Nicoletta, e le mie sensazioni. E c’è questa frase: sei la benvenuta. “Spostare l’attenzione all’interno è la prima cosa da fare”, spiega Nicoletta. “A volte basta questo per trasformare profondamente il nostro stato d’animo o per accorgerci che siamo dentro a un sogno. Il primo passo è disporsi a osservare quello che succede senza volere cambiare nulla. Non voglio essere più rilassato, più in pace. Voglio solo riconoscere quello che c’è”. Quello che c’è in questo momento è un senso di espansione nell’area alta del torace, un senso di apertura.
È un’emozione fluttuante, che si precisa se continuo a guardarla. Aspetto ancora un po’ e il senso di apertura si trasforma in un piacere più profondo, il piacere di essere accolta. Sono colpita dall’effetto che quella frase ha avuto su di me. “Dipende dall’attenzione”, spiega Nicoletta. “Quando la spostiamo all’interno, anche uno stimolo semplice provoca una sensazione che possiamo percepire. Grazie a questa sensazione originaria focalizziamo”. Adesso capisco perché Gendlin l’ ha chiamato proprio così: più metto a fuoco il mio sentire, più trovo qualcosa di inaspettato.
Passiamo a un secondo esercizio: Nicoletta chiede se c’è un volontario disposto a lavorare su una situazione un po’ scomoda (ma non troppo) della propria vita. Mi offro senza pensarci. Lei guida con la voce la mia attenzione alle diverse parti del corpo, al respiro.
Ho pensato di analizzare la mia tendenza al disordine. Non è un disordine poi così grave, ma la mia scrivania è invasa di carta. giornali, libri, appunti. oggetti inutili che sono lì da mesi creando in me una certa stanchezza Anche la libreria non scherza. E anche l’armadio.
“Quando ti senti pronta ripensa alla situazione che hai scelto. Non occorre che noi la conosciamo. Richiamala come immagine, osserva come ti fa sentire in questo momento e descrivi ad alta voce quello che avverti nel corpo”.
La prima cosa che noto è il respiro che si fa più atto e più corto. Poi una tensione ai muscoli del viso. “Rimani con questa sensazione legata alla situazione”, aggiunge Nicoletta, «e vedi se c’è una parola, una frase che può riassumerne l’essenza”.
La contrazione si accentua intorno agli occhi. È così forte che mi sorprende. All’improvviso arriva un cambiamento che non posso spiegare. “È qualcosa che mi disturba gli occhi”, dico ad alta voce. Appena pronuncio la frase, i muscoli si rilassano e il viso si scioglie in un sorriso. Per qualche minuto continuo a sorridere. Perché ho capito qualcosa di nuovo: il mio disordine disturba i miei occhi perché disturba il mio bisogno di armonia. È come un’immagine composta male. Come una foto confusa, sgradevole che suscita disagio.
La cosa curiosa è che, visto da questa prospettiva, il mio disordine non mi sembra più un noioso problema e, per la prima volta, immagino di riordinare la mia scrivania come se stessi creando una composizione artistica, dove ogni oggetto dialoga con altro. Dove gli spazi vuoti sono importanti quanto gli spazi pieni. Continuo a sorridere perché risolvere il disordine si è trasformato in un gioco. Che mi diverte.
Riapro gli occhi e guardo Nicoletta che spiega. “Quando le parole riescono a rendere l’esperienza interna, succede qualcosa nel corpo, come la contrazione che si è trasformata in sorriso. Riconoscere quello che c’è provoca uno spostamento interiore. Se c’è disagio, vederlo e riconoscerlo allenta la tensione. È qualcosa che si può percepire a livello fisico e quasi sempre questo cambiamento di percezione si accompagna a una nuova comprensione, a un’idea diversa di sé e della propria realtà”.