Traduzione italiana di Letizia Baglioni.
Al di sotto del livello dei pensieri, dei concetti e perfino delle emozioni, ci sono i modi sottili in cui la vita viene esperita direttamente nel corpo. David Rome spiega come questa ‘sensazione significativa’ viene risolta attraverso la pratica del focusing.
Molti esercizi contemplativi di derivazione orientale, come le arti marziali, lo yoga, l’arte di disporre i fiori e la cerimonia del tè, hanno trovato accoglienza come complementi della pratica buddhista in occidente. Ora un numero crescente di buddhisti sta adottando il Focusing, una pratica che ha radici nella filosofia e nella psicologia occidentali, ritenendolo un valido strumento sia per approfondire la propria pratica meditativa, sia per gettare un ponte fra la meditazione e le sfide della vita occidentale contemporanea.
Che cos’è il Focusing? E’ portare un’attenzione delicata e interessata all’esperienza percepita al livello corporeo. ‘Percepita al livello corporeo’ sta a indicare quella trama non verbale o affettiva che precede o sottostà alle formazioni concettuali. Può essere esperita come una vaga sensazione corporea che è più che semplicemente fisica: è il modo in cui il corpo sta vivendo una particolare situazione nel momento presente.
Questa sensazione corporea, o ‘felt sense’, come viene chiamata comunemente, non equivale a entrare in contatto con le proprie emozioni. La sensazione significativa si trova ‘al di sotto’ di emozioni come la rabbia, l’invidia o il desiderio; è più sottile e si presta meno a essere definita da un nome. Le sensazioni significative sono prive della narrativa che solitamente si accompagna a un’emozione: “Sono arrabbiato perché è successa la tal cosa”. Sono più vaghe e fisiche; una persona che è in contatto con una sensazione significativa potrebbe esprimersi così, ad esempio: “C’è una zona qui, sotto allo sterno, che è compressa come una scatola a sorpresa”.
Una sensazione significativa non possiede sulle prime un referente preciso. E’ non concettuale. Ma se l’accompagnamo e l’ascoltiamo attraverso il processo del Focusing [lett. ‘mettere a fuoco’] c’è la possibilità che assuma una connotazione più chiara e che si ‘apra’ in modo da darci una nuova prospettiva sulla nostra situazione. Giunti a quel punto – che non può essere affrettato – possiamo cominciare a verificare i nostri concetti sulla sensazione significativa, ossia cominciare a chiederci ‘a cosa si riferisce’. Ma la priorità va data comunque alla sensazione significativa, non alla concettualizzazione, e la pratica del Focusing implica lasciar andare a più riprese l’attività concettuale per tornare all’impressione corporea.
Il Focusing ha due fattori chiave in comune con la meditazione buddhista: la sospensione dell’abituale attività discorsiva della mente, per poter rivolgere un’accurata attenzione alla propria esperienza del momento, e una consapevolezza spaziosa che invita l’emersione di significati più profondi. In termini buddhisti si può dire che il Focusing è sia un esercizio di pacificazione mentale che una pratica di visione profonda.
Come focalizzare
Con un po’ di esperienza è possibile focalizzare quasi ovunque e in qualunque momento: in ascensore prima di una riunione importante, nel corso della riunione stessa, camminando o guidando, eccetera. Ma per imparare e approfondire il Focusing conviene ritagliarsi un momento tranquillo, come si fa con la meditazione.
In genere chi focalizza si mette a sedere comodamente, poi si prende uno o due minuti per entrare nel corpo. Per rilassarsi e diventare ricettivo alle sensazioni fisiche potrà fare una breve ricognizione delle varie parti del corpo. A quel punto ‘scende giù’, focalizzando l’attenzione delicatamente nella regione del torso, in tutta l’area che va dalla gola al bacino. Lo scopo è ‘uscire dalla testa’ ed entrare in contatto con quelle parti del corpo – il cuore, i polmoni, la spina dorsale, lo stomaco, la pancia – dove reagiamo a livello viscerale. Poi rimane lì, in attesa, con un’attenzione delicata e paziente che è pronta a ricevere le sensazioni significative che possono essere presenti o in via di formazione.
Una volta che una sensazione significativa è presente, ‘le si tiene compagnia’, come si farebbe con un bambino piccolo che sta cercando di esprimere qualcosa che ancora non riesce a mettere in parole. Dopo un periodo di semplice attenzione alla qualità fisica della sensazione significativa, la persona che focalizza potrà cercare di trovare una parola o una breve frase o immagine che le si adatti, il cosiddetto ‘appiglio’.** Non è un tentativo di spiegare la sensazione significativa, quanto piuttosto una semplice descrizione tattile, visiva o metaforica della qualità che si percepisce in quel particolare momento, ad esempio: ‘tesa’, ‘vischiosa’, ‘come una palla dura’, ‘una superficie molle con i contorni caldi’. Generalmente la sensazione ha una collocazione precisa (nel petto o nella pancia, sul lato destro o sinistro) e chi focalizza può indicare l’area con la mano. A volte l’appiglio è rappresentato da un gesto, piuttosto che da parole.
La chiave è che la priorità va sempre data alla sensazione significativa. Qualunque appiglio verbale viene confrontato con la sensazione significativa per vedere se corrisponde. La persona che focalizza fa la spola fra l’appiglio e la sensazione – processo che si definisce ‘risuonare’ – modificando o sostituendo l’appiglio finché la corrispondenza non è ottimale. La riprova di una giusta corrispondenza è che la sensazione significativa cambia leggermente, si ammorbidisce o si apre, per dir così, si sente veramente riconosciuta, come qualcuno che è perso fra la folla e all’improvviso si sente chiamare per nome da una voce amica.
Il processo del risuonare incoraggia la sensazione significativa a venire allo scoperto, a porsi al centro dell’attenzione. A quel punto saremo pronti per il passo successivo che si definisce ‘domandare’, nel quale invitiamo la sensazione significativa a dirci di più. La caratteristica distintiva di una sensazione significativa, secondo il padre del Focusing Eugene Gendlin, è la sua capacità di ‘replicare’. Ci saranno domande che non gradisce e alle quali non risponderà, e altre alle quali invece darà una risposta. Le domande del Focusing possono essere formulate in un’infinità di modi, ma quelle classiche sono: “Qual è l’aspetto peggiore di questo problema?”; “Cosa richiede adesso questa situazione?”; “Cosa impedisce che la questione si risolva?”.
La magia del Focusing si sprigiona quando si pone la domanda e ci si astiene dal rispondere – dal rispondere con la testa, cioè. Si aspetta, come quando si conversa con qualcuno e il nostro interlocutore fa una pausa per riflettere prima di dire la sua. Si aspetta, sostenendo un’attenzione paziente, affettuosa, interessata, e si osserva se emerge una qualche risposta nel corpo. Potrebbe non emergere nulla: non ricevere alcuna risposta è un indizio che stiamo davvero focalizzando, e non seguendo il pensiero discorsivo. A volte la sensazione significativa si rifiuterà di rispondere a una certa domanda, ma all’improvviso deciderà di farlo se la riformuliamo con altre parole. ‘Domandare’ richiede un atteggiamento giocoso, curioso, creativo, la sensazione di non sapere in anticipo cosa ne verrà fuori. Non sapere consente al nuovo di emergere.
La chiave del successo in questa pratica è ciò che si definisce ‘atteggiamento del Focusing’. E’ l’abilità di prendersi cura di sé con gentilezza e coraggio, e può essere coltivata. Negli ambienti del Focusing viene definita anche come ‘presenza premurosa e sensibile’, o ‘empatia rivolta a se stessi’. E’ una qualità affine alla virtù che nel Buddhismo prende il nome di maitri, gentilezza amorevole nei propri confronti. E’ un modo potente, significativo e a volte miracoloso di fare amicizia con se stessi.
Un esempio
In questo momento, mentre scrivo, se mi fermo un attimo a focalizzare, la mia esperienza è la seguente… Esplorando il mio corpo, noto una tensione al centro del petto. Ne riconosco la presenza in modo amichevole, semplicemente lasciandola essere lì il più pienamente possibile. Poi, rivolgendomi all’interno, domando: “A cosa si collega questa tensione?”. Attendo… Ah! Ora capisco. Sono in ansia per come verrà accolto questo articolo, e mi sento obbligato a convincere i miei lettori dell’utilità del Focusing… Sì, ora vedo come mi sono sforzato di controbattere le possibili obiezioni (che non è spirituale, che alimenta l’attaccamento all’ego, che è un indulgere ai sentimenti, che è terapia, che è una forma di auto-aiuto, che…). In realtà non ho nemmeno bisogno di definire con precisione le varie obiezioni; posso semplicemente percepirle sotto forma di una sensazione significativa che etichetto come ‘tutto quello che ha a che vedere con le possibili reazioni dei lettori’. Mi prendo alcuni secondi per restare semplicemente in contatto con questo, per lasciargli prendere forma – come sensazione significativa, non come concetto – esplorando empaticamente quel luogo sotto pressione nel mio corpo che contiene tutta questa storia su come potrebbero reagire i lettori.
Ora posso chiedere: “Di cosa ha bisogno per sentirsi meglio?”. Di nuovo attendo, rivolgendo l’ascolto all’interno… Sì, ora capisco. Non sto scrivendo per provare qualcosa a qualcuno, e nemmeno per mettermi alla prova. Lo faccio per descrivere questa pratica che mi è stata tanto utile e metterla a disposizione degli altri. I lettori sapranno, basandosi sulla propria sensazione significativa, se è il caso di approfondire o meno. Molti sceglieranno di non farlo. Qualcuno sì. Ed è proprio come dev’essere… Ora, se torno dentro a verificare, noto che quel luogo teso nel petto si è sciolto, sprigionando un’energia e un calore rinnovati nel riprendere a scrivere.
Compagni di Focusing
Anche se lo si può fare benissimo da soli, praticamente ovunque e in qualunque momento, il Focusing è particolarmente efficace se lo si scambia regolarmente con un’altra persona. Io e Carolyn, la mia compagna di Focusing, iniziammo il nostro scambio quattro anni fa, quando eravamo vicini di casa. Tre anni fa Carolyn lasciò New York per trasferirsi nel North Carolina, e da allora abbiamo continuato a focalizzare insieme un’ora a settimana… per telefono. In effetti la maggior parte delle partnership di Focusing si avvalgono del telefono. E’ un po’ diverso dal focalizzare insieme di persona, ma funziona sorprendentemente bene: si ha l’impressione di poter andare a fondo dentro di sé sentendosi concretamente sostenuti dalla presenza umana intima e affettuosa del compagno all’altro capo della linea.
Nel corso delle sessioni di Focusing i due dividono il tempo in parti uguali, prendendo a turno il ruolo di Focalizzatore e Ascoltatore. Quando è il proprio turno a focalizzare, si entra dentro e, quando si è pronti, si comunica quello che si sta osservando. E’ una sorta di contemplazione interiore a voce alta, più che una conversazione ordinaria. Non c’è bisogno di essere logici o di preoccuparsi se l’altro capisce cosa vogliamo dire; frasi lasciate a mezzo e cambi improvvisi di direzione sono all’ordine del giorno. L’Ascoltatore, nel frattempo, offre un’attenzione aperta e amichevole, cercando semplicemente di accompagnare il processo dell’altro in qualunque direzione stia andando.
Chi pratica il Focusing (non diversamente da chi medita) partecipa spesso a week-end esperienziali o laboratori di una settimana condotti da istruttori esperti dove si dà molto spazio al lavoro in coppia. Molti hanno più di un compagno regolare, magari per esplorare con ciascuno aspetti diversi della propria vita (personali, lavorativi, creativi, o altro).
L’arte dell’ascolto
Il tirocinio del Focusing relativo all’ascolto è il più profondo, sensibile ed efficace che io conosca. Ispirato al lavoro pionieristico dello psicologo americano Carl Rogers, con cui Eugene Gendlin studiò all’Università di Chicago, e all’uso rogersiano dell”accettazione incondizionata positiva’ in terapia, è non giudicante, non interpretativo e spiccatamente empatico. Di più, ci educa a essere veramente presenti per gli altri senza nel contempo perdere di vista noi stessi. Mentre ascoltiamo sarà naturale avere certe reazioni (sentimenti, giudizi, ricordi, idee ‘utili’) ma il nostro compito è sempre riportare l’attenzione sulla persona che focalizza. Cerchiamo di notare quando il Focalizzatore è in contatto con la propria sensazione significativa, che di solito è il momento in cui il flusso della narrazione si interrompe e c’è silenzio, o frasi lasciate in sospeso, intercalate da ‘mmh…’ o ‘ehm…’, una qualità di incertezza, come un andare a tentoni.
Qui l’Ascoltatore ha l’opportunità di fare qualcosa di rivoluzionario. Invece di cercare di completare le frasi in sospeso dell’altro, avanzare ipotesi di soluzione del problema o descrivere una propria analoga esperienza, l’Ascoltatore potrà restituire le parole o frasi più significative utilizzate dal Focalizzatore. L’effetto è quello di un’eco o di uno specchio: quando il Focalizatore ascolta le proprie parole restituite dall’altro, ha l’opportunità di verificarne la corrispondenza con la sensazione significativa non verbale. Se la rispondenza è immediata, proverà un senso di riconoscimento e si sentirà incoraggiato a procedere. Spesso, riascoltando le parole, noterà che non corrispondono esattamente, non rendono giustizia alla sensazione significativa. A quel punto, invece di sentirsi tenuto a tirare dritto in ossequio ai modi convenzionali di interagire, potrà usare la cesura per riprendere il discorso a partire dal vissuto del momento. A volte la correzione sarà minima; in altri casi potrà venire fuori qualcosa di inatteso o perfino illogico.
Con l’andare del tempo le abilità coltivate in una partnership di Focusing tenderanno a manifestarsi spontaneamente nelle interazioni quotidiane, e prenderanno la forma di un ascolto profondo naturale. Modelli di interazione ripetitivi potranno sbloccarsi, e le proprie conversazioni saranno animate da un’energia e una comprensione di tipo nuovo.
Focusing e Meditazione
Il Focusing può essere un ottimo complemento alla pratica della meditazione buddhista. Robert Aitken Roshi, il decano dei maestri zen americani, raccomanda il Focusing ai suoi allievi come attività propedeutica alla meditazione. In un recente scambio con Eugene Gendlin, Aitken Roshi ha osservato: “Sono lieto che molti buddhisti, a quanto mi dici, siano interessati al Focusing. Continuo a consigliarlo di quando in quando nei colloqui individuali con i miei allievi, che riferiscono di averne tratto giovamento. Io lo considero come una pratica propedeutica al lavoro noetico dello zazen, dove si richiede una mente silenziosa”.
Spesso il Focusing comincia con un passo che si definisce ‘fare spazio’, che può servire altrettanto bene come preliminare alla meditazione. Consiste nel prendere un po’ di tempo per notare tutto ciò che viene trattenuto a livello coporeo – una preoccupazione, un bisogno o una situazione irrisolta. Dando a ogni contenuto un attimo di riconoscimento – senza ‘entrare nel merito’ – quel nodo può allentarsi un pochino, tanto da non interferire con il tema prescelto, che nel caso del Focusing potrà essere una particolare situazione o problema, e nel caso della meditazione sarà la tecnica specifica. Fare spazio è come occuparsi di un bambino richiedente: a volte basta dedicargli un attimo di affettuosa sollecitudine perché si senta rassicurato e smetta di reclamare la nostra attenzione. I contenuti non vengono repressi, potranno ricomparire nella sessione di Focusing o durante la seduta di meditazione; ma essendosi alleviato quel senso di urgenza possiamo trovare una relativa calma.
Un altro modo in cui il Focusing fa da complemento alla meditazione è creando un ponte fra la pratica formale e la vita nel mondo. La maggior parte di noi non ha preso i voti, non ha abbandonato la casa e la famiglia, gli amici e gli impegni secolari. E se è vero che la meditazione ci educa a un maggiore distacco nel rispondere alle sfide del quotidiano, non sempre ci dà indicazioni specifiche su come gestirle. Particolari intuizioni potranno emergere spontaneamente, ma la meditazione in quanto tale non mira a risolvere problemi: il suo obiettivo primario è risolvere il detentore dei problemi.
Il Focusing ci insegna, in quanto attività distinta dalla meditazione, a invitare deliberatamente una situazione, un problema, una decisione da prendere o un compito creativo, al centro della consapevolezza contemplativa per offrirgli un’attenzione paziente, premurosa, interessata. Allora la situazione può cominciare a dipanarsi, ad aprirsi in modi che portano a una comprensione nuova e a un cambiamento nel nostro modo di rappresentarcela. Spesso ciò si traduce in una serie di intuizioni applicative – i cosiddetti ‘passi pragmatici’ [action steps], di cui possiamo servirci per risolvere aspetti della nostra vita che appaiono bloccati, contribuendo all’auspicato movimento in avanti.
Il Focusing ha a che vedere essenzialmente con come ci occupiamo della nostra vita, dei nostri rapporti, del nostro ambiente, dei problemi di lavoro, delle nostre speranze e paure, eccetera. Inoltre è un efficace antidoto all”evitamento spirituale’, che John Welwood, nel suo ottimo libro Toward a Psychology of Awakening definisce come “usare idee e pratiche spirituali per eludere ‘questioni irrisolte’ sul piano personale ed emotivo, per puntellare un senso di identità fragile o sminuire l’importanza di bisogni, sentimenti e compiti evolutivi primari in nome dell’illuminazione”.
Il terzo aspetto, e forse il più significativo, è che il Focusing può avere un impatto cruciale sulla qualità dell’esperienza meditativa stessa. Sebbene le varie scuole di Buddhismo presentino un’ampia varietà di tecniche e approcci alla meditazione, la maggior parte di questi si basano sull’insegnamento originario del Buddha sui ‘quattro fondamenti della presenza mentale’ contenuto nell’Anapanasmrti Sutra, che prescrive la ‘nuda attenzione’, ossia il semplice prendere nota di ciò che emerge nella coscienza di momento in momento. Ma in pratica qui può sorgere un problema.
Molto di ciò che si presenta alla nostra consapevolezza è come la punta di un iceberg che rivela solo un frammento dell’intero. Se la nostra pratica di nuda attenzione è troppo ristretta, o troppo casuale, corriamo il rischio di saltare da punta a punta, per dir così, senza mai prendere coscienza di quel più vasto ‘qualcosa’ che sta al di sotto del pensiero, dell’emozione o del correlato psicologico che notiamo consciamente.
Nello stadio iniziale della pacificazione mentale il semplice prendere nota è auspicabile, in quanto stiamo imparando a non ‘entrare nel merito’ di sensazioni o percezioni a livello discorsivo. Ma c’è anche un elemento di ignoranza, un po’ come se dessimo una rapida occhiata a tutte le persone che incontriamo senza mai sentire pienamente la presenza di nessuna. Qui il Focusing ci mostra una via di mezzo, un modo per sentire ‘l’interezza’ di ciò che emerge senza seguire l’inclinazione abituale alla discorsività. E’ come prendersi il tempo per recepire appieno la persona che stiamo incontrando – questa particolare persona, proprio qui, in questo momento – senza però intavolare una conversazione.
Chogyam Trungpa Rinpoche descriveva la meditazione di consapevolezza come un processo di ‘toccare e lasciar andare’. ‘Toccare’ significa riconoscere appieno, assaporare appieno, la consistenza di un particolare contenuto mentale, e non solo rimbalzarci contro. E’ la differenza fra una delicata stretta e uno sfioramento superficiale. Questo toccare, riconoscere, assaporare, è il seme da cui si sviluppa la comprensione intuitiva, un modo di essere presenti ai fenomeni che incoraggia l’emersione di significati nuovi. Dato che gli occidentali tendono a essere più scissi dall’esperienza corporea di quanto lo siano gli appartenenti a culture più tradizionali, il Focusing può promuovere la nostra capacità di entrare in contatto intimo con ciò che emerge nella mente-cuore secondo una modalità non discorsiva. Di recente Pema Chodron istruiva così una meditante che le chiedeva consiglio sulla propria pratica meditativa: “C’è un ingrediente segreto: l’esperienza diretta, non verbale”.
Potrà essere utile un breve accenno alle idee fondamentali che sono alla base del Focusing. Filosoficamente affonda le sue radici nella fenomenologia, un movimento filosofico del ventesimo secolo che rivendica il primato dell’esperienza diretta, di prima mano, sulle astrazioni metafisiche. In contrasto con l’affermazione di Cartesio, per cui “penso, dunque sono”, la fenomenologia si chiede: “In cosa consiste l’effettiva esperienza del pensare, spogliata da tutte le idee che potremmo avere al riguardo? Cosa osserviamo quando ci limitiamo a prestare attenzione al fenomeno in sé e per sé?”. Il parallelo con la meditazione buddhista è evidente.
La pratica del Focusing fu messa a punto negli anni ’60 e ’70 dal filosofo e psicologo Eugene Gendlin, professore emerito all’Università di Chicago. Gendlin ha portato la tradizione intellettuale occidentale un passo oltre il modernismo e il post-modernismo sviluppando una ‘filosofia dell’implicito’ radicalmente nondualistica, orientata al processo.
Gendlin parte da una premessa che definisce ‘prima l’interazione’ [interaction first]: detto in parole semplici significa che il processo vitale precede qualunque tipo di entità e oggetti. Un animale, incluso l’animale umano, è un’interazione in corso con il proprio ambiente. Noi non veniamo dal nulla per poi cominciare a interagire con l’ambiente; piuttosto, siamo sempre stati e siamo ancora un processo che prende forma insieme al proprio ambiente. Ciò vale tanto in un’ottica evoluzionistica quanto sul piano dell’esistenza individuale. Gendlin afferma che una persona non è una cosa e neppure un organismo, bensì un ‘portare avanti’ [carrying forward].
Questo portare avanti, o ‘promozione vitale’ [life forwarding] si esprime in cicli funzionali come ad esempio il mangiare-digerire-defecare-mangiare. Ma un ciclo può restare bloccato. Siamo pronti a mangiare ma non c’è cibo a disposizione. In questo caso il processo bloccato dà origine a una sensazione che chiamiamo ‘fame’ e che implica un oggetto che chiamiamo ‘cibo’. Ma fame e cibo, come tutti i concetti, sono astrazioni rispetto all’esperienza immediata. Non rendono giustizia alla specifica conformazione dei casi concretamente vissuti che intendono descrivere. A di sotto della generalizzazione chiamata ‘fame’ sta la complessa conoscenza corporea di questa precisa situazione nella quale mi trovo adesso, ed è solo a partire da questa specifica complessità vivente che posso sapere quali mosse compiere per soddisfare la mia fame nelle attuali circostanze. Mettere mano alla dispensa? Andare al ristorante? Provare un cibo nuovo che non ho mai assaggiato? O forse non si tratta affatto di cibo; forse telefonare a un amico o fare una lunga passeggiata nel bosco rispondono meglio a questa mia fame.
In quanto esseri umani, la somma della nostra esperienza di vita fino a questo momento implica sempre un’ulteriore crescita, un ulteriore dispiegamento. Finché non si attua concretamente, la forma di questa crescita ulteriore non può essere conosciuta, è solo implicita (da cui la ‘filosofia dell’implicito’). Quando arriverà, sarà una risposta infinitamente precisa alle circostanze attuali e sarà inedita, perché nulla di esattamente uguale è mai accaduto in precedenza. Così, ad esempio, quando incontro una persona per la prima volta, la mia esperienza sarà simile a quella dei molti incontri che ho già avuto, ma sarà anche assolutamente nuova: non ho mai fatto esperienza di un’altra persona esattamente nello stesso modo.
Il Focusing non pretende di essere un ‘percorso autosufficiente’. Al contrario, si propone come uno strumento fra tanti per la crescita e la trasformazione. Sebbene ci sia chi lo adotti come pratica contemplativa principale, il Focusing ama associarsi ad altri metodi e tecniche, e trovare applicazione in campi disparati come l’insegnamento, le professioni sanitarie, l’impresa, le arti, la psicologia, oltreché, naturalmente, la spiritualità. A me pare che, a dispetto del tanto parlare che si fa oggi sull’integrazione fra spiritualità e azione nel mondo, spesso nell’ambito di conferenze dedicate espressamente al tema, la nostra comprensione di come realizzarla concretamente nel contesto della vita contemporanea è ancora agli albori. Il Focusing può dare impulso e chiarificazione al nostro sforzo di coniugare la disciplina meditativa con un’azione costruttiva nel mondo.**Il termine originale in lingua inglese, ‘handle’ (letteralmente ‘maniglia’, o ‘manico’) è stato reso con ‘simbolo’ nella versione italiana del manuale di E. Gendlin, Focusing: Astrolabio, Roma 2001 [N.d.T.].