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Pensare al di là dei modelli: corpo, linguaggio e situazioni

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Introduzione

1. Il progetto: pensare con qualcosa di più che le forme

Il mio progetto è pensare a – e pensare con – quello che sopravanza i modelli (forme, concetti, definizioni, categorie, distinzioni, regole…).

Attualmente tale progetto appare impossibile, e per motivi filosofici piuttosto cogenti. Occorre superare alcuni assunti fondamentali, senza però approdare in un limbo. Ciò può accadere solo grazie a un nuovo modo di pensare.

Forme e modelli logici sono incapaci di abbracciare la complessità di individui e situazioni. Forme e distinzioni non possono neppure definire in cosa consistano forme e distinzioni. Non chiariscono la natura della chiarezza; non definiscono la definizione. Nessun concetto concettualizza efficacemente il funzionamento di concetti, modelli, regole o forme. Ma è un grosso errore denigrare i modelli accurati, o affermare che non servono a nulla. Nella Sezione B discuteremo i modelli e la loro funzione, però non come cose a sé stanti, ma sempre dentro qualcosa di più.  Vogliamo far sì che questo di più operi nel nostro pensare accanto alle forme concettuali.

Le forme logiche funzionano da sole solo apparentemente. Per esempio, il modello di triangolo sembra funzionare da solo nel momento in cui determina che la somma dei propri angoli equivale a 180 gradi. Due più due sembra fare quattro da solo. La chiara struttura concettuale e spaziale che soleva definire un atomo di idrogeno sembrava funzionare da sola, così come una chiara norma sociale del tipo “gli uomini tengono la porta aperta per le signore”. Queste forme danno l’impressione di funzionare in quanto stabili significati capaci di determinare la più ampia complessità del fatto. Sostengo, tuttavia, che il fatto può replicare. E in realtà conferire a forme e norme significato e ruolo. Le forme non funzionano mai da sole, ma sempre unicamente all’interno di un ordine più vasto e complesso.

La questione è: possiamo pensare con questo ordine più complesso? Possiamo lasciarlo operare nel nostro pensare? Possiamo pensare qualcosa non solo come forma specifica ma anche come complessità più grande? Inoltre: possiamo lasciare che la complessità operi nel nostro pensiero circa il suo modus operandi?

Sorge immediatamente un problema linguistico: non sembra esserci un modo per parlare e pensare intorno a quello che è più delle forme. Non si può dirne senza concepirlo o formularlo in questo o quel modo. (Per esempio, io lo ho appena chiamato “quello”; il che sembra dargli la forma di qualcosa di distinto che è possibile additare).

Se pure esiste un ordine più vasto delle forme, forse può essere detto solo dentro alle forme concettuali e linguistiche. Il linguaggio sembra consistere puramente di forme, distinzioni e regole. Queste e altri tipi di forma hanno già giocato il loro ruolo nelle nostre situazioni ed esperienze prima ancora che parliamo e pensiamo.

2. Il problema: le forme sono sempre già operative

Questo problema è noto ai filosofi antichi. La filosofia nasce con il riconoscimento dell’impossibilità di riferire in maniera neutrale osservazioni ed esperienze. In ciascuna situazione, esperienza e pensiero a partire dai quali pensiamo, sono sempre già state operative numerose forme culturali e concettuali.

Gli assunti espliciti e impliciti variano a seconda delle culture, degli atteggiamenti esistenziali e degli approcci concettuali. Solo assumendo un certo insieme di assunti è possibile analizzarne altri. Il risultato è un’irriducibile varietà di contrastanti analisi reciproche.

Il problema non può essere risolto su basi puramente empiriche. Si negherebbe il fatto che certe forme concettuali e sociali hanno sempre già operato implicitamente prima del nostro osservare.

Ma allora, su che basi può darsi una critica delle forme e dei modelli?

3. La direzione di una soluzione e un cambiamento di assunti

Pensare con di più che le forme è possibile, perché l’assunto è sopravvalutato: quello per cui concetti e forme sociali determinano interamente – come definire ciò che determinano? – l’esperienza (situazioni, pratica, corpo, complessità…). Più avanti discuterò il mio uso di stringhe di parole e forme consecutive come questa.

Senza dubbio l’ordine più complesso include le forme; le forme esplicite e implicite vi giocano sempre un qualche ruolo. Ci sono sempre entrambi. Ma ci si può chiedere in che modo funzionino insieme – a patto di scoprire come lasciarli funzionare insieme nel nostro stesso pensare e dire come funzionano insieme.

Sì, le forme sono sempre operanti, ma non sempre otteniamo solo ciò che logicamente deriva dalle forme. Il risultato può essere: molto di più e qualcosa di diverso. Questo perché ciò entro cui le forme operano replica: non con il disordine, ma con più precisione.

L’ordine che è più delle forme opera nel linguaggio e nella cognizione in molti modi cruciali e discernibili. Dovrà esservi un modo per discernerli e lasciarli operare nel nostro pensare. Piuttosto che rimpiazzarle con spiegazioni, possiamo lasciare che queste funzioni continuino a operare dentro e dopo le spiegazioni che ne diamo. Se scopriamo come farlo, il termine “spiegazione” assumerà un significato nuovo.

4 Le premesse

La filosofia di questo progetto è stata esposta nel mio Experiencing and the Creation of Meaning, e in altri scritti. Ne sono anche derivate applicazioni nel campo della psicoterapia, dell’insegnamento della composizione letteraria (Elbow, 1989, Perl, 1983) e in altri campi.

Oggi, il pensare con più che le forme sta prendendo piede. Sebbene sia ancora ampiamente considerato impossibile, sempre più pensatori si pronunciano a favore di questo progetto (vedi ad esempio il “pensiero più corposo” [thicker thinking] di Williams, Putnam e Cavell).

Molti scoprono la vasta complessità dell’esperienza, e sanno che non deriva interamente dalle forme imposte. Ma poi la pensano come una certa modalità, e lì si fermano. Occorre un modo per continuare a pensare con e a partire da essa.

Secondo il mio modo di concepirlo, questo pensare altera certi assunti profondamente radicati che ineriscono alla struttura di gran parte dei concetti e al modo consueto di utilizzare i concetti nel pensiero teoretico.

Il nostro compito non è semplicemente rigettare tali assunti. Un più attento esame rivela che essi non vengono veramente creduti, per cui non è difficile rigettarli. Tuttavia, questi assunti si sono annidati nella struttura della gran parte dei nostri concetti. Dobbiamo capire il perché. Allora tali assunti cambieranno nel nostro modo di pensare nella e con la complessità. La Sezione B mostrerà che i nuovi modi di pensare possono dialogare e collaborare con la scienza contemporanea.

Il principale assunto è quello per cui l’ordine non può che essere qualcosa di imposto all’esperienza; che forme, distinzioni, regole o modelli sono il solo ordine che non ammette l’esistenza di “altro” – da cui l’impossibilità di un’interazione fra forme e qualcosa di più. L’idea è che a replicare non sia che il disordine.

L’assunto dell’imposizione a senso unico fu adottato per correggere un errore precedente: la concezione errata per cui la scienza imita o ritrae la natura. L’ordine della natura non può essere rappresentato o approssimato, perché non vi è alcun ordine preformato che esista in quanto tale, in attesa che noi lo cogliamo. La correzione assume che la natura non sia altro che un qualsivoglia ordine imposto da noi.

Si tratta però di un’iper-correzione: sì, è evidente che la natura si rivela diversamente in risposta a diverse costruzioni e operazioni. Ma essa risponde a ciascun approccio con grande precisione, sempre nello stesso modo, sia pur variando al variare degli approcci. Dunque il suo modo di rispondere mostra anch’esso un ordine, che non si identifica però con una serie di modelli. E che riveste molti ruoli importanti, di per sé piuttosto evidenti anche se scarsamente studiati.

Dobbiamo chiederci: in che modo le forme e l’ordine più complesso lavorano insieme? In che modo funziona il di più? E come operano le forme all’interno del di più? La seconda domanda si articola come segue:

1. Come operano le forme esplicite insieme al di più, anche quando sembrano operare da sole, nella logica e nella scienza?

2. Come operano le forme quando operano implicitamente nell’esperienza, allorché sono (“sempre già”) penetrate in ogni esperienza e osservazione prima del nostro pensare? Sì, dobbiamo darne conto, ma dobbiamo pensare in che modo operano implicitamente. Scopriremo che il loro funzionamento implicito non è affatto quale si era supposto.

Nella filosofia occidentale, la linea Kant-Hegel-Nietzsche ha reso il problema intrattabile. Nel sopravvalutare sistematicamente il ruolo della forma, ha pressoché lasciato in ombra ciò che è più della forma. Nulla viene visto come avente un ordine proprio. Tutto è considerato in quanto ordinato da forme, modelli e regole imposti. Gran parte dei filosofi moderni ha radicalmente escluso un ordine della natura, la natura umana, la persona, la pratica, il corpo.

La possibilità che qualcosa abbia un ordine proprio viene negata. Ogni ordine è ritenuto interamente imposto da una storia, cultura o interpretazione concettuale che potrebbe anche essere diversa.

Ma su cosa si impone questo ordine imposto? Qui i pensatori si dividono: alcuni parlano di un semplice “flusso”, altri di un recalcitrante disordine. Altri ancora affermano trattarsi di un mero nulla: per Hegel, il pensiero incontra solo se stesso. A suo modo di vedere, le distinzioni camminano sulle proprie gambe.

Quando si postulano solo forme imposte, gli esseri umani sembrano non avere nulla in comune. Un certo numero di forme sembra attraversare le diverse culture. Alcuni antropologi individuano un’unica invarianza: ovunque le persone hanno nomi propri. Ciò non è privo di interesse: ovunque, un chi si affaccia dagli occhi ed esige riconoscimento. Ma la comunanza termina qui? Le forme del linguaggio, della religione, della famiglia, e le convenzioni culturali relative al corpo umano, sono così diverse da rendere ardua la formulazione di significati universali. Si dice che gli umani non rappresentino neppure un’unica specie: tutti i membri di una specie animale vivono secondo identici modelli. Tutti si nutrono e dormono nello stesso modo, hanno gli stessi rituali di accoppiamento e costruiscono identici ricoveri. Gli umani non hanno simili modelli in comune. Se sono solo i modelli a renderci umani, non sembra darsi una natura umana.

Pertanto, Freud (1949) affermò che l’io è il prodotto delle forme di una determinata società. Egli affermò che l’io reca il timbro “made in Germany”, come un prodotto di fabbrica. Al di fuori dai manufatti sociali io e super-io, esiste solo l’id, che consiste di energie pulsionali non organizzate incapaci di produrre un comportamento se non in seguito all’imposizione di modelli sociali. Secondo Freud, il corpo non possiede un ordine comportamentale intrinseco (cfr. il mio “Critique of Narcissism”; vedi inoltre Levin, C. e Horowitz, G.).

I concetti psicoanalitici sono costruiti in base all’assunto che al di fuori delle forme di una specifica cultura vi sia solo narcisismo primitivo autistico. Freud postulò che l’unica natura umana sia la cultura. L’America, disse, “è la peggiore delle ipotesi”: in mancanza di una cultura unitaria e coerente, non si dà un io ben strutturato (non aveva ancora visitato il nostro paese).

La grande maggioranza dei pensatori del ventesimo secolo trova risibile l’idea di una natura umana universale. Scorge profondità e serietà solo nelle forme che la cultura e la storia impongono a un corpo altrimenti meccanico. A quanto pare, essere umani significa essere interamente artificiali: niente natura umana, niente soggetto umano, niente verità o valori, solo forme imposte. Questa è la concezione dominante ancor oggi. Ribaltare questa concezione implica un radicale cambiamento di indirizzo.

L’assunto di un ordine imposto riguarda non solo la natura umana, ma anche la natura nel suo insieme. La natura è definita come una mera “costruzione”. Alcuni filosofi affermano che se gli scienziati fossero consapevoli del loro postulare e costruire la natura, di certo si comporterebbero in maniera più responsabile. La scienza è considerata arbitraria, mera politica, il mero esito di postulati.

Poiché la scienza viene ridotta a una serie di postulati imposti, chi li mette in questione non trova ancora nulla che li sottenda.

Anche l’etica sembra dipendere da questo o quell’insieme di postulati o imposizioni. C’è chi afferma (con il Trasimaco di Platone e l’Ivan Karamazov di Dostoevsky) che tutto è lecito. Altri (ad esempio Sartre) individuano un senso di “responsabilità” verso ciò che scegliamo di imporre. Tutti, però, sembrano trovarsi di fronte a un vuoto nel momento in cui le forme imposte falliscono.

Se il nostro dire e pensare consiste solo di forme, distinzioni, regole o modelli, non c’è modo di affrontare tali questioni.

5. Marx, Dilthey e i Pragmatisti

Se andiamo alla ricerca di qualcosa di più che un ordine imposto, leggeremo i filosofi che ci hanno preceduto con occhi nuovi. Troveremo che alcuni di essi avanzarono ipotesi rimaste ignorate.

Marx, ad esempio, non credeva che la natura umana fosse il prodotto delle forme imposte da una determinata società. Egli affermò che le società attuali “distorcono” la natura umana, e che quest’ultima è “incompiuta”.

Ma possiamo pensare con qualcosa di incompiuto? Può l’incompiuto operare alla stregua di un concetto nel nostro pensiero? Vedremo come ciò sia possibile. Sì, deliberatamente e sistematicamente, possiamo lasciare che qualcosa di incompiuto operi nel nostro modo di formulare e utilizzare i concetti.

Dilthey pensava alla natura umana come a un “fare esperienza”, il quale, affermava, era sempre anche un implicito “capire”.  Egli affermò: “In linea di principio, tutto ciò che è umano è comprensibile”. Al giorno d’oggi un’affermazione del genere suona ingenua, come se si ignorasse l’estrema diversità delle culture e degli individui. Dilthey però lo diceva perché per lui la comprensione non consiste solo di forme condivise. Piuttosto: quando ci rivolgiamo all’esperienza dell’altro, la nostra diventa più ampia. Nel contesto di questo processo più ampio, comprendiamo

gli altri con più precisione di quanto comprendevano se stessi, e anche la nostra comprensione di noi stessi ne risulta ampliata. Dilthey però non si è addentrato nel funzionamento di ciò che è più delle forme condivise. Vogliamo riprendere a pensare da qui.

Anche i pragmatisti hanno fatto di più di quanto oggi si creda. L’opinione corrente è che valutassero tutto in termini di efficacia, senza però mettere in questione i valori e gli obbiettivi che la determinano. Ma la critica dà per scontato che i valori debbano essere criteri esterni che occorre sempre introdurre dal di fuori. Pierce, James e Dewey illustrarono il modo in cui obbiettivi e criteri si sviluppano a partire dalla pratica e nel suo stesso contesto, e come mutano non per semplice imposizione. Tale approccio non risolve immediatamente ogni questione circa i valori, ma ne risolve molte, e colloca le rimanenti oltre la nozione semplicistica di valori derivati dall’esterno.

Ora vorrei mostrare come alcuni filosofi recenti hanno affrontato il pensare con più delle forme, e dove si è fermata la loro ricerca.

6. Wittgenstein e i contesti d’uso del linguaggio

Una volta, appreso che alcuni colleghi si erano convertiti al cattolicesimo, Wittgenstein ebbe a dire (Drury, 1981): “Come dire che un tale si è procurato l’equipaggiamento da funambolo”. Il senso è che l’equipaggiamento non conferisce le abilità necessarie per quell’attività. Da questa e altre affermazioni (Chatterjee), si deduce che Wittgenstein scoprì un modo per pensare con più delle forme, ma solo restando sul filo: né dentro la trappola del linguaggio, né al di là del linguaggio. Egli non ritenne possibile uscire dal linguaggio, varcare il confine. Era però possibile camminare sul margine, anche se ciò richiede abilità.

Per Wittgenstein c’erano due modi per stare dentro il linguaggio: fuorviati dai concetti, o camminando sul margine. Essere fuorviati significava pensare all’interno dei concetti. Egli mostrò che i nostri concetti esplicativi sono fuorvianti. Come ha potuto riuscirci? Senza uscire dal linguaggio, Wittgenstein trovò qualcosa di diverso dai concetti.

Wittgenstein mostrava per ciascun concetto esaminato che la parola che usiamo per designare il concetto non si applica ugualmente ai suoi diversi casi. Egli proponeva non due o tre, ma a volte fino a ventitré esempi di uso della parola, ciascuno assai preciso e diverso dall’altro. Nessuno di questi centrava completamente il concetto. Le sue opere contengono forse migliaia di esempi del genere, uno diverso dall’altro.

Voglio rimarcare il fatto che i suoi esempi possiedono un ordine più esigente, sono più complessi dei nostri concetti. Secondo la mia terminologia, Wittgenstein si è imbattuto nella complessità. Pressoché tutto è molto più complessamente ordinato di quanto lo siano i modelli concettuali.

Wittgenstein sapeva di essersi spinto col suo ragionamento a una posizione più avanzata dei concetti e dei sistemi. Ma si fermò sul margine. Una forma di pensiero ulteriore non sembrava possibile. Il movimento di Oxford che intese seguire le sue orme fece in un certo senso un passo indietro. Giustamente sottolineò il fatto che una parola significa il suo uso nelle diverse situazioni: la parola segna o modifica qualcosa nella situazione in cui può essere detta. I contesti d’uso di una parola non condividono una stessa immagine o uno stesso modello. Come diceva Wittgenstein, le situazioni di una parola sono una “famiglia”, non una categoria. Malgrado ciò, gli analisti di Oxford tentarono di definire l’uso di una parola, se non tramite un concetto, tramite una regola, nell’intento di cogliere quello che una parola segna o fa. Quel tentativo fallì; neppure le regole limitano ciò che una parola può significare. La scoperta ebbe un effetto scoraggiante. Della complessità aperta da Wittgenstein non sembra rimanere altro che il numero interminabile di esempi disparati disseminato nelle sue opere. La domanda cruciale rimase inespressa: come funziona la complessità implicita? In che modo le parole operano con tale complessità e con modalità così inedite da non lasciarsi limitare da forme e regole?

7. Husserl e Heidegger

Nello stesso periodo, poco prima di Wittgenstein, anche Husserl scoprì (quella che definisco) la complessità. Anche a motivo di ciò, egli rigettò i vecchi concetti teoretici. Husserl scoprì che l’esperienza ordinaria può dar luogo a descrizioni assai diverse, e anche assai più precise, rispetto alle vecchie teorie. Ad esempio: noi non vediamo mai gli oggetti da tutti i lati contemporaneamente, ma sempre da una sola angolatura, eppure non ci sembrano piatti. Le relazioni temporali direttamente percepite sono anch’esse molto diverse dalle consuete rappresentazioni del tempo. Egli osservò inoltre che ogni evento è sotto certi aspetti definito, e sotto altri aspetti vago. Tutto ciò che prese in esame secondo tale ottica esperienziale rivelò strati su strati di ulteriori specificità. Husserl si spinse ben oltre le vecchie teorie, e produsse un ampio catalogo di esplicazioni specifiche.

Piuttosto che pensarci nel contesto dell’universo costruito dalla scienza logica, Husserl affermò che la scienza è possibile solo nel contesto delle leggi fenomenologiche.

Husserl ritenne di poter codificare le leggi fenomenologiche relative a come si costruisce l’esperienza. Egli ritenne di aver scoperto queste caratteristiche dei fenomeni. E’ evidente però che egli le scoprì in risposta a certe distinzioni e schemi addotti alle sue descrizioni. Non si domandò se, quando e come si possa distinguere fra scoprire e addurre. Non si domandò cosa avrebbe trovato se fosse partito da distinzioni diverse. Ad esempio: Husserl cominciò col ripartire tutto in tre aree: percepire, sentire e volere. Nel corso degli anni apportò frequenti modifiche a questa triplice ripartizione, ma sempre, a suo dire, allo scopo di renderla più accurata. Non si chiese mai come la complessità esperienziale potesse dar luogo a risultati diversi ripartendola in altri modi. Quindi le sue esplicazioni non tengono conto della facoltà della complessità di essere ulteriormente esplicata in vari modi. Né le permise di continuare a operare in altri modi, che noi qui utilizzeremo e prenderemo in esame. Egli formulò una serie di valide specificazioni, ma non sviluppò un metodo per pensare con la complessità intrinseca.

Perché Husserl non si è posto il problema delle conseguenze di varie possibili distinzioni? Credo sia perché aveva la certezza, e a ragione, che le sue osservazioni non fossero unicamente il frutto delle sue distinzioni. Egli scoprì sempre molto di più di ciò che poteva derivare unicamente dalle semplici distinzioni. Non aveva torto nel ritenere la descrizione fenomenologica diversa dalla mera teoria o speculazione. I suoi critici sopravvalutano il problema, quasi che la fenomenologia avesse minor fondamento di ogni altra filosofia.

Effettivamente le distinzioni di Husserl furono rimunerate da scoperte che non erano solo il frutto delle sue distinzioni. Ciò di cui non si avvide era che la complessità può anche rispondere positivamente ad altre distinzioni e divisioni, seppure in maniera diversa. Evidentemente la complessità non si riduce a questo o quel sistema di distinzioni.

Le domande non poste, e che noi ci porremo, sono: come funziona la complessità in risposta a forme e distinzioni diverse? Come far sì che continui a funzionare nel nostro pensare con forme e distinzioni e sulla scorta di esse?

Per esaminare il funzionamento della complessità, occorre individuare un modo di pensare e parlare in cui la complessità implicita continua a funzionare accanto a (una o più) esplicazioni. I termini devono portare con sé la complessità, così da compiere ulteriori passi in avanti non limitati dall’esplicazione.

I fenomenologi che seguirono Husserl usarono ciascuno distinzioni diverse, e ottennero risultati diversi. Nessuno di loro si domandò cosa consentisse ai fenomenologi di asserire che la loro non era speculazione, ma pura descrizione di fenomeni. Il primo Heidegger, e successivamente Merleau-Ponty, trattarono l’intrinsecamente implicito, pre-tematico, con efficacia. Ma entrambi vi addussero propri modelli concettuali che si discostavano da quelli di Husserl. Nessuno scoprì o cercò un sistema per pensare con ciò che è più complesso, e che può rispondere a molte distinzioni diverse.

Nei suoi primi lavori, Heidegger ci andò vicino. In Essere e tempo (1926), egli offre un’affascinante “analisi” dell’ essere-nel-mondo, che includeva sensazione, comprensione, esplicazione e linguaggio. Egli reinterpretò tali categorie, dimostrando come siano “egualmente fondamentali” le une per le altre, e sempre l’una dentro l’altra. Egli affermò che in base alla nostra comprensione affettiva (come lo è uno stato d’animo, ad esempio) sappiamo i motivi che ci spingono a compiere una certa azione “oltre i limiti della facoltà cognitiva”.

Heidegger chiamò i suoi termini “Existenziale”, ossia aspetti del nostro modo di esistere, e affermò che non erano concetti. Erano esplicazioni del (formate nel e a partire dal) nostro essere-nel mondo. Ma in cosa, esattamente, risultavano essere più dei concetti? Heidegger li chiamo “ermeneutici”, in quanto esplicano una comprensione pre-esplicita, pre-tematica. Egli però non esplorò ulteriormente l’idea di ermeneutica, che in seguito finì col rigettare completamente. Cosa gli avrà impedito di portare avanti le premesse da lui poste per un pensare più-che-concettuale?

Come Husserl, Heidegger non si chiese come altri modelli fossero in grado di esplicare diversamente la nostra compresione pre-esplicita. Né si chiese come possiamo far sì che la comprensione implicita continui a operare quando pensiamo a un determinato soggetto. Ma il suo motivo per non porsi questa domanda è opposto a quello di Husserl. Heidegger non partiva dal presupposto che l’esperienza possa essere descritta indipendentemente dai nostri assunti, anzi, al contrario: egli riteneva che la nostra comprensione pre-tematica è sempre già plasmata da determinati di tipo storico. Quello che ora si proponeva era di capire l’origine di tali determinanti storiche.

Heidegger non vide nei suoi “Existenziale” un modo più-che-concettuale per portare avanti il suo pensiero ulteriore. A suo parere, ciò che di essi poteva essere pensato era pur sempre determinato entro i limiti degli assunti storici dell’occidente. L’origine delle determinanti storiche e i modi del loro cambiamento erano pensabili solo a un livello metafilosofico. Di conseguenza, immediatamente dopo Essere e tempo Heidegger procedette per via puramente concettuale alla ricerca di una “metaontologia” da cui gli “Existenziale” sarebbero derivati. (1928) Egli mise da parte la versione husserliana di complessità esperienziale e rigettò i suoi precisi più-che-concetti, facendo riconvergere tutta la complessità una sola domanda: se tutto è intrinsecamente storico, qual è l’origine delle determinanti storiche?

Successivamente si servì anche del linguaggio poetico, ma sempre in vista di quella domanda fondamentale. Ad esempio, in Sentieri interrotti, Heidegger afferma che la pittura contribuisce sì qualcosa di originale, ma sempre solo all’interno della “radura” creata dalle soprastanti determinanti del linguaggio e della storia. Solo pensando le determinanti in quanto tali possiamo sperare di pensare l’apertura.

Heidegger conosceva due modi di pensare gli assunti soprastanti storicamente dati: o intrappolati al loro interno, o in un modo che riapre le questioni che in origine chiusero, riguadagnando così l’apertura che in essi si nasconde. Così facendo, Heidegger fu in grado di produrre una critica efficace – da lui definita ‘distruzione’ – dei concetti filosofici occidentali, rendendoli così visibili e ri-aprendoli così radicalmente che è divenuto ormai impossibile darli per scontati e ragionare tranquillamente sulle loro basi.

Heidegger era un convinto assertore del dettato della sua nazione e della sua epoca, per cui un autentico pensatore non può che essere un pensatore di una nazione e una cultura specifiche. (Vedi ad esempio l’affermazione di Ranke, per cui un vero storico non può che essere o integralmente tedesco, o di altra nazionalità, o superficiale). Ciò che è universale appariva solo come il comune denominatore più basso. Heidegger trascurò la parte dell’opera di Dilthey a cui mi riferivo prima. Non arrivò all’universale natura umana caratteristica della comprensione transculturale.

D’altro canto, Heidegger fu un deciso oppositore dell’opinione nietzchiana secondo cui le forme culturali sono semplicemente imposte e al di fuori di esse c’è solo indeterminazione. Dietro le forme, Heidegger vide un’apertura da cui tutte emergono, e che nascondono e coprono proprio in virtù del loro essere formate.

Conviene pensare a Heidegger non solo come al pensatore che più di ogni altro minò alle basi l’illuminismo occidentale, aprendo la strada al relativismo contemporaneo. Egli è anche il pensatore che si oppose più fortemente al relativismo, insistendo sul fatto che qualora si afferrino con sufficiente profondità le forme storiche soprastanti in cui ci si trova, è possibile pensare attraverso di esse fino a raggiungere l’apertura che le “dà”. Più di recente questa apertura si è perduta, sostituita dalla dichiarazione di Derrida secondo cui nuove proprietà distintive si avvicendano semplicemente alle vecchie: nessuna apertura sembra possibile.

Nelle sue ultime opere, Heidegger torna ad avvicinarsi a quel pensiero più-che-concettuale già introdotto nei suoi più-che-concetti con la loro stupenda precisione. Egli sente l’esigenza di un modo di pensare più-che-concettuale, che definisce “indugiare”. Ma se ne serve solo per pensare al di là degli assunti più generali. Dovendo essere al di là di tutto, sembrò che “l’indugiare” non potesse riguardare alcunché. Pertanto non riuscì neppure a cominciare.

Essendosi lasciato alle spalle tutto, a eccezione delle determinanti assolute, Heidegger non poteva pensare al modo in cui ciò che è più della forma funziona – per dirla a parole mie – in ciascuna situazione e in ciascun momento del pensare. Non vide come ciascun frammento di vita e di pratica può replicare con più complessità, in maniera tale da modificare le determinanti che sono in gioco implicitamente al suo interno. Pertanto non poté proseguire la sua indagine sul modo di operare (come direi io) implicitamente delle determinanti storiche, e su come cambino allorché operano all’interno di una complessità più vasta. Non poté approfondire il ruolo dei singoli esseri umani nell’avvento della nuova storia (vedi Scharff su Vereinzelung). Non poté elaborare ulteriomente un pensiero più-che-concettuale. Sarà nostro compito riaprire – come direbbe Heidegger – tali questioni.

E’ anche possibile leggere Heidegger a modo mio: l’apertura è implicita in qualunque cosa, e può continuare a operare nel nostro pensare a partire da qualunque cosa. (Vedi i miei “Befindlichkeit” e “Dwelling”).

Perché a Heidegger parve così impossibile che la pratica e le situazioni concrete potessero essere fonte di nuove determinanti? (Cfr. Kolb). Per lo stesso motivo per cui Kant ritenne così palesamente impossibile derivare la logica dall’esperienza: entrambi partivano dal presupposto che l’esperienza è sempre già stata organizzata da certe determinanti, cosicché non può derivarne un cambiamento delle determinanti stesse. L’esperienza può darsi solo all’interno delle determinanti.

Occorre una critica capace di porre un limite al  “sempre già” e al “solo all’interno”. In alcunché che sia umano sono sì implicitamente presenti concetti e forme culturali, ma vedremo come essi non operino sulla scorta di una determinante a senso unico.

Prima passiamo rapidamente in rassegna la filosofia contemporanea.

8. Attualmente si possono riconoscere tre approcci:

a. La filosofia della scienza:

Il discorso razionale viene sottoposto a nuovo esame sotto molti e interessanti punti di vista, sia qui da noi [in America] che in Europa.

Habermas, ad esempio, mette in luce il processo del discorso, le condizioni sociali e interpersonali che consentono il suo essere razionale. L’esperienza è vista come un’interazione comunicativa, piuttosto che in termini di mere forme logiche. Ma si conserva il presupposto (che io negherò) che la comunicazione è possibile solo nell’ambito di una “riserva comune” di modelli di significato (Vorrat an Deutungmustern), che pertanto viene ad assumere il ruolo attribuito da Kant alla logica.

La nuova filosofia della scienza pone l’accento non solo sul prodotto finale puro, ma sul modo in cui gli scienziati lavorano. Quelle che definisco funzioni della complessità emergono in primo piano. Ciò vale anche nel caso del nuovo campo della “logica applicata” (Hintikka 1989), che promette di diventare assai di più di una mera applicazione della logica formale.

Ma il discorso razionale, scientifico, “strumentale”, non può essere trattato solo come una dimensione separata e indipendente, come sembra nelle intenzioni di Habermas e di molti filosofi della scienza. Una sfera “strumentale” non può essere semplicemente suddivisa in segmenti, come se avesse come unico limite le sfere con essa confinanti. Non si può semplicemente parlare di “metodologia della definizione di significato coerente”, “neutralità libera da valori” e via dicendo, senza porre in questione gli schemi e gli assunti introdotti da espressioni del genere.

Ma una critica della scienza non limitarsi a essere negativa. E’ vero che l’economia e la politica influenzano la scienza; le pure forme razionali non controllano gli usi che se ne fanno. Ma forme e distinzioni non si limitano a decadere. Sono anche operanti. Occorre individuare il loro operare all’interno delle più ampie funzioni che sono contemporanemaente in gioco.

b. La visione tragica: la decostruzione di Derrida

La decostruzione porta un’attenzione costante agli schemi e alle distinzioni introdotti da tutte le parole (come McKeon aveva anticipato). Si tratta, auspicabilmente, di un contributo duraturo, tale per cui nessuno possa più dirsi soddisfatto di restare dentro modelli schematici non esaminati portati dalle parole.

La decostruzione dimostra anche che le distinzioni non danno mai un risultato netto, ma sempre anche ciò che non rientra nella distinzione. Quest’ultimo si definisce “eccedenza”, come se di per sé non avesse alcuna vera funzione (cfr. i contributi particolarmente illuminanti di Bernasconi). L'”eccedenza” viene vista solo come una contingenza poco compresa o un collasso del nucleo della forma concettuale.

Questa visione si ferma troppo presto. La natura della forma concettuale non viene compresa. (Sembra impossibile pensare questo problema se non all’interno di questo o quel sistema di forme concettuali). La decostruzione non coglie le funzioni vitali di quella che si definisce “eccedenza”.

E’ vero che in ogni singolo momento statico l’eccedenza non può essere presa a sé stante. Non è possibile coglierla o pensarla da sola, indipendentemente dalle distinzioni e dalle forme. Per cui appare sempre come nient’altro che l’eccedenza di una data distinzione. Ma è un’illusione ottica. Non è l’eccedenza solo della forma predominante al momento. Se la seguiamo attraverso un pensare passo passo, notiamo le molte e precise funzioni che riveste nel pensiero e nel modo in cui le parole cambiano assumendo significati nuovi (come tenteremo di fare nel capitolo 3).

Derrida (1981) sostiene che nessun dire può dire al di là delle sue distinzioni. Esse ri-circondano immediatamente ogni dire che auspicava di procedere oltre.

L’unica soluzione, per Derrida, è un discorso che si autocancelli. Prendiamo ad esempio l’affermazione secondo cui ogni testo è commento a un testo precedente: dato che nessuno è un testo, nessuno è un commento. Il metodo è quello di dire-e-cancellare. Derrida nega di dire alcunché al di là delle distinzioni: secondo lui può esservi solo un dire-e-cancellare distinzioni.

Sia col dire che col cancellare, Derrida dice molto, e per di più  mette in scena la difficoltà lasciata in ombra da Husserl. Se Heidegger (nel suo periodo di mezzo) aveva scritto-e-cancellato le parole “essere” ed “è”, Derrida cerca di cancellare tutte le parole. Come Wittgenstein, egli cerca di rompere le distinzioni e le forme recate dal linguaggio pur rimanendo sempre nell’ambito del linguaggio.

Ma la decostruzione chiude anche molto di ciò che quei tre filosofi avevano aperto. Ora nulla è                    visto operare se non le distinzioni stesse. Ciò che Husserl aveva penetrato, e Wittgenstein e Heidegger additato, è ora niente di più che un attimo fugace, tragico perché trascorso sul nascere: l’attimo in cui un insieme di modelli trapassa in un altro insieme.

In termini di metafora politica, la possibilità della liberazione viene negata. Gli oppressi non possono giungere al potere in quanto tali. Lo stato senza classi è impossibile, i lavoratori possono solo dare origine a una nuova minoranza dispotica. Ciò che è altro dalle distinzioni imposte non può essere detto o pensato: non può essere. Potrà esserci solo un’altra forma imposta.

Analogamente, Foucault ritiene che l’organizzazione imposta dai detentori del potere può essere cambiata solo dall’organizzazione imposta dal successivo gruppo al potere. Al di fuori dell’ordine imposto c’è solo una resistenza appena abbozzata a cui non è dato essere se stessa. Egli afferma che nulla di nuovo può scaturire dall’individuo o dal corpo umano. Contrariamente agli animali, che possiedono istinti, il corpo umano secondo Foucault (1977) è stato completamente distrutto dalla storia. Egli ritiene che creiamo noi stessi allo stesso modo in cui ritiene si crei un’opera d’arte: imponendo valori e concetti predeterminati su una materia interamente plasmabile.

L’odierno relativismo, o nichilismo storico, nasce da quella strada a senso unico che è l’assunto di un ordine imposto.

Lacan legge Freud nella medesima chiave tragica. (Se Freud potesse collocarsi, si metterebbe nel primo campo. Egli credeva che la ragione occidentale potesse in una certa misura essere distinta dall’irrazionalità umana. Ebbe inoltre un qualche successo nel fondare una scienza psicologica). Lacan evidenzia in Freud ciò che deriva da Kant e Nietzsche: l’id non possiede un ordine, per cui l’ordine può solo essere qualcosa di imposto dall’esterno. In quanto imposto, questo qualcosa non è in grado di offrire risposte significative. Non è in grado di modificare alcuna forma. Non può neppure ritenere che una certa forma sia più aderente a sé rispetto a un’altra. (Che alcunché sia se stesso viene negato in quanto vecchia metafisica dell’identità). Ciò su cui si impone l’ordine non può essere se stesso. Il suo desiderio di essere se stesso è tragico perché destinato a essere sempre qualcosa d’altro, qualcosa di imposto. Questa eredità della forma imposta derivante da Kant e Nietzsche è di certo presente anche in Freud.

Si noti come la Decostruzione conservi il vecchio assunto secondo cui l’ordine può solo essere imposto. Una volta dichiarato il fallimento delle forme, sembrerebbe esserci spazio per il qualcosa di più. Ma lo si presenta in veste tragica in quanto mero attimo fugace, mero disordine. Perché? Perché forme e distinzioni imposte sono ancora considerate l’unico ordine possibile. La Decostruzione si pone come un rovesciamento della tradizione, ma in realtà conserva l’assunto tradizionale che vede possibile solo un ordine imposto.

Ci occuperemo tra poco di confutare la visione tragica: ciò che è più della forma non è tragico o effimero. Non è l’attimo fugace fra due forme consecutive. Se c’è qualcosa di effimero, sono le forme. Il nostro dire, agire e pensare è, a paragone, più stabile, e si muove invariabilmente dentro, con, e dopo tutte le forme. Non rappresenta né il loro ordine né il loro disordine. Diremo piuttosto che ha un modo di funzionare tutto suo. Diveniamo capaci di dirlo solo allorché gli consentiamo di continuare a funzionare.

c. Pensare con la complessità esperienziale (corpo, situazioni, pratica, linguaggio….):

E’ in atto un grande cambiamento sul piano individuale e collettivo. Oggi, milioni di persone hanno scoperto la complessità esperienziale. L’impresa, la medicina e la società in generale stanno adottando processi esperienziali. Questo cambiamento è cominciato con la psicoanalisi. Ma mentre Freud riteneva di aver dato il suo contributo più importante con i suoi concetti teorici, non furono i concetti, ma la pratica psicoanalitica a cambiare la società. La pratica introdusse gli individui e la società alla complessità esperienziale.

Al giorno d’oggi, più del 90% degli psicoterapeuti in ogni parte del mondo non adotta più il modello psicoanalitico. Sebbene per parecchie generazioni la maggior parte degli psicoterapeuti abbiano ricevuto una formazione psicoanalitica, la maggioranza ha trovato motivi professionali cogenti per abbandonare concetti psicoanalitici e procedure concettualizzate.

Si noti il rapporto fra teoria e prassi evidenziato da un cambiamento sociale di questo tipo: quella pratica che sembrava fondarsi su certi concetti ha ottenuto in risposta molta più complessità di quanta potesse derivarne dai concetti. Si noti in particolare: la complessità che ha risposto ai concetti ha reso inevitabile l’abbandono di quegli stessi concetti. Questo è uno dei modi in cui concetti e complessità possono interagire. Riprenderemo il discorso più avanti.

Al giorno d’oggi, il modo di lavorare di molti psicoterapeuti si spinge ben oltre qualunque concetto teorico. Tutti i terapeuti, inclusi i pochi “analisti ortodossi” superstiti, sanno che occorre sempre consentire alla pratica di stupire la teoria. Il processo della terapia si spinge oltre le interpretazioni meramente imposte. L’interpretazione che ieri si attagliava alla perfezione può aver contribuito all’emergere di ciò che trasforma l’oggetto dell’interpretazione stessa.

Freud richiamò l’attenzione sul fatto che, nella pratica, il processo di “elaborazione” è assai più specifico di quanto lo siano i concetti. Ma lo pensò comunque come sottoposto ai concetti; pensava ai concetti in quanto soprastanti. Ora i concetti sono stati ampiamente abbandonati, e, cosa ancor più significativa, è stato abbandonato il modo di pensare e lavorare che si avvale di concetti soprastanti.

Dal momento che il pensiero ordinario è disperatamente incapace di stare al passo con la sensibilità del terapeuta (e delle persone in generale), il pensiero teorico si è guadagnato una cattiva reputazione agli occhi di molti, come se fosse di per sé inutile o dannoso. Ma è possibile sviluppare un pensiero teorico molto più attento e preciso in questo campo a partire dalla funzione personale della complessità.

Questa particolare complessità fu scoperta da Freud che ne fu, al pari di Husserl e Wittgenstein, un pioniere. Egli richiamò l’attenzione sul fatto che, quando non la trattiamo direttamente, stiamo solo “razionalizzando”. Eppure non ne aveva una buona opinione. La chiamava “patologia della vita quotidiana”. Nella sua metapsicologia, la presentò come mero disordine. Ma non è tutta patologia. Nella gran parte dei casi viene vissuta come qualcosa di molto più sano, realistico e ordinato degli schemi imposti. Oggi le forme sociali non offrono più una guida sicura al nostro agire. Dobbiamo improvvisare giorno per giorno, e in molte situazioni creare modi di agire più complessi. Noi lo facciamo non semplicemente inventando, ma a partire dal fatto che percepiamo una situazione poco chiara come più complessa dei ruoli e dei concetti già noti. Ora le forme sociali sembrano primitive e semplicistiche.

Oggi è facile affermare che la complessità esperienziale non è un semplice derivato dei modelli imposti. Ma anche negare e basta è una semplificazione, che non tiene conto di come vecchi concetti e distinzioni siano all’opera anche nella più profonda e apparentemente intima delle nostre esperienze. E che non tiene conto del rapporto intrinseco fra esperienza e concetti. Senza comprenderne la funzione implicita, è impossibile sapere quando ci limitiamo a una riedizione del già appreso e quando invece stiando andando oltre. Dimostrerò che è effettivamente possibile saperlo.

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